Meraviglioso racconto scritto da Antonio Bruno
Il rosso e l’oro sembravano essersi impossessati della Terra, con le loro pacate o sferzanti pennellate mosse dal vento d’autunno… Gli alberi dei parchi cittadini e gli alti faggi che delimitavano i viali avevano ormai da qualche settimana iniziato nuovamente il loro annuale rito di speciale policromia stagionale inviando su tetti ed asfalti migliaia di loro “messaggere”: passate cantanti di primavera, foglie che, solo qualche mese prima, erano rigogliose e verdi, nella danza armonica di fusione con il cielo, di anelito alla stella della vita che gli uomini chiamano Sole …
Chi dice che l’autunno è una stagione triste o malinconica non ha capito nulla della magia perennemente vitale delle stagioni, che sono il respiro della natura. L’autunno è come una musica barocca, ed i suoi florilegi di colori caldi – di foglie o ricci di ippocastano che preludono a più intime introspezioni domestiche che ben presto porteranno gli uomini a sentire il bene atavico della dimora protettrice, cadendo a terra, o facendosi trasportare nell’aria, lontano – mi ricordano le scale armoniche di Vivaldi, di Bach o di Telemann …
Susan Woodhouse era una bimba che queste cose le aveva sempre sentite, fin da quando aveva pochi anni: sembrava che, d’autunno, il suo giovane spirito si animasse di una strana euforia e provasse un grande piacere nel tuffarsi nei cumuli di foglie morte accatastate dagli spazzini o nel raccogliere ricci di ippocastano da terra, incurante delle punture che spesso martoriavano le sue manine. La sua cittadina era una tipica cittadina inglese, ordinata e borghese ma con la fortuna di essere immersa in una natura dolce e bellissima, in una terra che nasconde, forse, il mistero della vita intima, profonda, del nostro intero pianeta; credo che questo mistero fosse conosciuto ed onorato dai nostri progenitori, quando il tempo non era malato di apparenza e l’uomo non aveva ancora abbruttito sé stesso con la schiavitù del solo visibile.
Dalle parti di Susan, la gente conservava ancora, sepolto in qualche angolo delle memorie ataviche ereditate da generazioni di uomini che, di quella terra, vivevano, una sorta di innata consapevolezza, un discreto quanto spesso inconsapevole colloquio di elezione con gli “spiriti delle lande”, con le forze nascoste che ne vivificavano la linfa.
Susan sembrava essere venuta da quell’imprecisabile passato e, crescendo, quella sua strana predilezione per l’autunno, quella incontenibile euforia che la portava ad intrattenersi per ore nei parchi cittadini o nei boschi delle immediate vicinanze dell’agglomerato urbano, divenne sempre più una particolarità irrinunciabile della sua vita.
Quando, poi, il calendario scandiva il trascorrere dei giorni in prossimità del fatidico 31 ottobre, Susan avvertiva quasi una frenesia incontenibile. Mentre le sue amichette ed i compagni di scuola si accontentavano di girare le strade bussando di porta in porta per il tradizionale gioco del “TRICK-OR-TREATING”, nel rituale ricatto che perpetravano al distratto mondo degli adulti e si mascheravano da streghe, folletti, spiriti e scheletri, Susan, che a volte era stata quasi trascinata dai compagni in quella parodia che trovava essenzialmente banale, faceva risuonare nella sua mente l’antica cantilena:
A soul cake!
A soul cake!
Have mercy on all Christian souls, for
A soul cake!”(Abbi pietà per tutte le anime Cristiane, per una torta dell’anima)
A 11 anni, la bimba rispose al “richiamo” di Samhain… Non sapeva cosa fosse ma sentiva che quel nome era come una specie di chiave. L’aveva, forse, letto da qualche parte, in qualche libro di leggende che il papà gli aveva regalato nel fugace tempo dell’infanzia. Susan sembrava rapita, dai quei racconti.
“Sei proprio una piccola strega, come tua mamma!…” – si divertiva a dirle Dick Woodhouse stuzzicandola giocherellando coi i suoi riccioli ramati incapace di non pensare alla madre di Susan, che un giorno la foresta gli aveva portato via …
Quell’anno, la strana cantilena di “Samhain” cominciò a risuonare ossessivamente quanto delicatamente nella testa della bambina tornando dal doposcuola, in quelle ore in cui il Sole sta per farsi accogliere dal grembo mistico della figlia Terra ed il vento fa danzare in muliebri mulinelli le foglie distese al suolo in fittizi tappeti.
“Samhain”…… Samhain!”….. udì quell’anno nella mente allo scostare con i piedi dei cumuli di foglie. Era la sera del 31 ottobre. La bambina portava in una mano la cartella e, con l’ altra, sorreggeva una zucca contenente un cero acceso che le avevano dato a scuola e che avrebbe dovuto portare così fino a casa pena l’arrabbiatura degli spiriti malvagi.
E la voglia di tornare a casa, quella sera, era davvero poca. Poi, la bambina si fermò, i piedini sommersi da onde screziate di rosso ed oro.
Alzò lo sguardo alla sua destra, oltre i bassi filari di case e villette del suo tempo distratto, ed andò a perdersi nei boschi e nei declivi delle regioni a cavallo fra Wiltshire e Somerset. Restò così, assorta, per minuti indefinibili. Poi le parve di vedere come delle lunghe mani protendersi da quegli alberi lontani e vicini al tempo stesso, mani che facevano un gesto armonico, sincronizzato ed inequivocabile: chiamavano Susan a sé!
Chi era, ormai, in quel momento, Susan? Perché lasciò cadere a terra la cartella ed assunse quella strana luce di sogno nei suoi grandi occhi verdi Non lo sapremo mai.
“Samhain”… “Samhain!”… sentiva ripetutamente fuori e dentro di sé la bambina, come una cantilena che l’attirava irresistibilmente.
Attraversò cortiletti privati e scavalcò piccoli muri di sassi antichi, posti su quei crinali chissà quanti secoli prima da uomini che conoscevano, forse, il segreto di quella voce.
Attraversò campi di grano ormai giunti da tempo al termine del loro ciclo annuale e si sentì vitalizzata, preda di un indescrivibile gioia, di un benessere tale da farla piangere.
“Ah, papà, papà!… Perché non sei qui con me, ora?…”, pensò Susan per un attimo.
“Forse andiamo verso la casa di mamma… Io so che lei è là, Papà….”
Ma, poi, quello strano salmodiare, quelle braccia magre, avvolte da panni sfrangiati, scuri, lunghi, la chiamarono ancor più irresistibilmente verso la boscaglia, sulle “Hill” che forse non avevano mai avuto niente a che fare con il mondo degli uomini…
“Samhain”… “Samhain!”… E Susan alzò la zucca con il cero acceso al suo interno verso gli alti alberi che non le avrebbero fatto, ne era certa, alcun male…
“Samhain”… “Samhain!”… E il sole calò dietro le “Hill”
Ogni anno, da allora, Dick Woodhouse, che non era mai riuscito a piangere per la scomparsa della sua unica figlia, si spinge fino ai limiti della cittadina in cui era nato e vissuto. Gli occhi sono sempre lucidi, velati da un pianto nobile e dolcissimo che nessuno poteva capire davvero. Ad un certo punto, l’uomo si ferma e guarda lontano, oltre le “Hill”… E’ allora che le sue labbra si piegano in un abbozzo di strano quanto sereno sorriso.
“Samhain”… “Samhain!”… canta la voce di Susan da qualche parte, laggiù… Un’eco più lontana, di voce femminile, ripete le parole di Susan:
“E’ Samhain, papà… Ti aspettiamo…”
E’ certo un racconto triste, ma dal significato molto profondo che lega il rapporto degli uomini con lo spirito. A dimostrazione della antica tradizione, ancora oggi abbiamo musicisti bardi che cantano antichi ritornelli. Come Sting che ha ripreso la tradizionale ballata di Samhain “Soul Cake” arricchendola di un arrangiamento formidabile.
Più precisamente, la Soul Cake è una piccola torta rotonda generalmente riempita con noce moscata, cannella o altre spezie dolci, uvetta o ribes. La tradizione ha origine in Irlanda e Gran Bretagna durante il Medioevo, ma si è propagata con qualche variazione anche fino al Sud Italia. Le torte, spesso chiamate ANIME, erano consegnate ai soulers, ovvero i bambini che andavano di porta in porta il giorno di Ognissanti cantando e recitando preghiere per i defunti. Ogni torta mangiata rappresentava un’anima che veniva liberata dal Purgatorio.
Féach tú go luath
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